Recensione di “Il treno dei bambini” di Viola Ardone
Titolo: Il treno dei bambini
Autore: Viola Ardone
Pagine: 233
Editore: Einaudi
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Trama
Napoli – 1946. Amerigo ha 7 anni ed insieme a centinaia di suoi coetanei sale su un treno diretto al Nord, “il treno dei bambini”, dove verrà dato in affido per qualche mese ad una famiglia benestante.
Il viaggio è organizzato dall’allora imperante Partito Comunista, che in questo modo cerca di sottrarre i piccoli alla miseria, in una Napoli piegata dalla seconda guerra mondiale.
Amerigo si ambienta pian piano nella sua “nuova famiglia”, dove è benvoluto dai genitori adottivi e dai fratelli.
Una volta ritornato a Napoli dovrà però fare i conti con quella che è la sua vera madre, in un contesto povero e disagiato al quale non era più abituato, in una continua lotta per la sopravvivenza, prendendo decisioni che cambieranno per sempre la sua vita.
Il mio giudizio
All’ultima Fiera del libro di Francoforte questo libro è stato definito “il caso editoriale dell’anno“, un libro che, a mio avviso, tutti dovrebbero leggere, in particolare le nuove generazioni che troppo spesso danno tutto per scontato.
Il contesto in cui è ambientato questo libro è quello che pochi possono immaginare: la Napoli piegata dalla guerra, in cui la miseria e la povertà costringono le famiglie a compiere scelte talvolta sofferte, altre volte “di comodo”, pur di sottrarre i propri figli alla fame e alla povertà.
Il trasferimento dei bambini al Nord, il lungo viaggio in treno, la sistemazione presso le varie famiglie venne organizzato dal “Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli” e dall’ “Unione Donne Italiane” insieme al Partito Comunista Italiano. Non mancò certamente la strumentalizzazione politica, ma in ogni caso lo scopo dell’iniziativa era unicamente quello di aiutare un popolo in difficoltà, “unendo” le due Italie il cui “confine” era ancora troppo netto.
Infatti l’analfabetismo e la dispersione scolastica sono fenomeni dilaganti e ciò porta i bambini a crescere troppo presto, obbedendo alle “regole della strada”, piuttosto che a vivere la propria età, in un clima di eterna rassegnazione; è questo il contesto in cui vive Amerigo, figlio di una madre single e di poche parole (“le chiacchiere non sono arte sua”), dall’animo triste e malinconico per la prematura scomparsa del figlio maggiore.
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Quando arriva nella “nuova casa” Amerigo è intimidito, impaurito, ma soprattutto sconvolto nel vedere tutto ciò che hanno i “nuovi fratelli” e a cui lui non è abituato, dalle scarpe pulite ed integre, ai cappotti caldi, per non parlare del cibo buono che ogni giorno può mangiare.
Colpisce la descrizione esterrefatta che i bambini del sud fanno di alcune pietanze oggi quotidianamente presenti sulla nostra tavola, come il gelato che l’amico Tommasino chiama “a neve”, la mortadella (“il prosciutto pieno di macchie bianche”), oppure il parmigiano (“il formaggi duro come una pietra”), l’avidità con cui afferrano tali pietanze, nonché lo stupore che i bambini manifestano davanti a semplici caramelle.
Anche una semplice “ninna nanna” inizialmente spaventa Amerigo, il quale non era certo abituato a tali dolcezze e smancerie, con una madre sempre troppo distante e continuamente preoccupata su come dar da mangiare al proprio figlio, piuttosto che pensare a cantargli dolci canzoncine.
Il ritorno a Napoli sarà traumatico per tutti.
Alberigo avvertirà la nostalgia del “papà del nord” e di tutta la famiglia adottiva, la madre Antonietta non comprenderà i nuovi bisogni del figlio ormai distante e tutto ciò alimenterà ancor di più quel clima di freddezza e distacco già forte.
Una figura che ho apprezzato molto è il “Papà del nord” di Amerigo. Pian piano Amerigo vi si affeziona – a Napoli un papà non lo ha mai avuto – e proprio grazie a lui scoprirà il proprio talento per la musica. Sarà la musica che lo porterà a compiere scelte che segneranno per sempre il distacco con la sua famiglia d’origine.
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Colpisce molto il linguaggio utilizzato dalla scrittrice, che simboleggia i cambiamenti di Amerigo: nella prima parte del libro Amerigo si esprime spesso in dialetto napoletano, sbagliando sistematicamente l’uso dei verbi, utilizzando spesso verbi transitivi al posto di quelli intransitivi, come in uso nel dialetto napoletano. Col passare del tempo Amerigo ha la possibilità di studiare e di emanciparsi, e così nella seconda parte del romanzo la scrittrice ce lo ripresenta come un uomo colto, di mezza età e che riesce ad esprimersi correttamente.
Di forte impatto è anche la metafora delle scarpe strette. Scarpe scomode e rotte che Amerigo è costretto ad indossare da bambino e che ne simboleggiano il difficile cammino della vita. Da piccolo le scarpe gli venivano “passate” da qualcuno, erano sempre scomode e strette, ma comunque il bambino ci si doveva adattare; da adulto Amerigo può finalmente indossare scarpe comode. Questo a simboleggiare il raggiungimento della pace interiore ed il superamento dei conflitti con la madre, nonché una posizione economica dignitosa, raggiunta non senza rinunce e sacrifici.
Personalmente mi ha molto emozionata la parte finale, in particolare gli incontri con il vecchio amico di infanzia Tommasino, e con il nipote Carmine.
Un romanzo che ci presenta un’Italia piegata, disastrata, ma unita più che mai, in cui i pregiudizi tra Nord e Sud passano in secondo piano, in nome dei più validi valori di fratellanza ed accoglienza. Principi che oggi troppo spesso stentiamo a ricordare.